• '
    '

Apicali, apicalitá (una visione critica di c.rossi)

Si pubblica il contributo fuori dal coro.

avere più punti di vista è SEMPRE un arricchimento.

Paolo Bertazzoli

 

Apicale, apicali.

Una premessa necessaria (più di altre volte): questo non è un post acchiappa like ed ovviamente nessuno è tenuto a leggerlo; meno che mai è tenuto a commentarlo (soprattutto se non lo ha letto fino in fondo). E’ semplicemente un veloce sforzo (scritto di fretta, nei ritagli di tempo ed esternato in forma “social”) di riflessione personale su un tema che riguarda più di tanti altri il mio lavoro. E’ uno sforzo di riflessione consapevolmente condotto fuori dai binari tracciati dalla vulgata corrente ed è prodotto nella piena consapevolezza di ciò. Insomma, mi interessa la sostanza e non la forma, perché qui è in gioco la qualità del mio lavoro, che non è affare secondario della mia vita. Non so per voi che state leggendo ma per me è così.

Questa riflessione prende, ovviamente, spunto dalla videoconferenza organizzata da Santo Fabiano sul tema dell’avocazione, come disciplinato dall’articolo 101 del nuovo contratto collettivo della dirigenza.

Metto subito le cose in chiaro, confermando una posizione espressa sin dal varo della direttiva indirizzata dal Comitato di settore. Me per me l’art. 101 del CCNL detta una normativa maldestra, scritta malissimo ed inserita nella sede sbagliata (l’art. 40, primo comma, del D.lgs. 165/2001 è chiaro e convoglia inesorabilmente quella norma della contrattazione collettiva all’esito previsto dal comma 3bis dell’art. 2 dello stesso D.lgs. 165/2001). Non vedo spazi ma soprattutto non vedo il perché bisognerebbe “salvare” una norma che a me pare contrastare in maniera evidente con la legge. E non ho ben capito perché bisognerebbe utilizzare la potestà regolamentare locale per “aggiustare” disposizioni nate morte. La contrattazione collettiva dovrebbe dettare disposizioni auto operative (si tratta di norme contrattuali e non di leggi delega o di norme principio), salvo che per le materie (predefinite), oggetto di successiva contrattazione “integrativa” aziendale. Ma qui siamo nel bel mezzo dell’organizzazione degli uffici e delle prerogative dei dirigenti. Non si scappa.

E comunque, appurato che la previsione dell’art. 101 non regge alla verifica delle preclusioni fissate dall’art. 40 alla contrattazione collettiva, resta il problema di quale normativa deve regolare la sostituzione dei dirigenti inerti.

Questa valutazione coincide in larga parte con la sottostante questione di merito e cioè se la soluzione operativa adottata nella sede sbagliata possa essere “salvata” da una sua futura, eventuale, da taluni temuta, da altri auspicata, traslazione della materia nella sede legislativa. Questa è la vera prova di “resistenza” da affrontare.

Nel corso del webinar Oliveri, sia pure senza il suo solito mordente, ha ribadito le ragioni di una sin troppo evidente violazione di legge in cui incorre la contestata previsione dell’art. 101. Anche Bonanno ha ben illustrato la pars destruens salvo poi virare inspiegabilmente verso una incomprensibile pulsione a “salvare” comunque la norma. In ogni caso, nessuno – a mio avviso – ha saputo trarre le conseguenze dalle premesse pur lucidamente fissate.

Solo molto avanti nella discussione qualcuno è sembrato avere l’intuizione giusta, peccato che tutto sia rimasto al livello dell’enunciazione estemporanea ed embrionale e che non si sia innescata la giusta reazione tra le premesse dettate da Oliveri e da Bonanno e l’intuizione avuta da Pompeo Savarino.

Savarino, ad un certo punto afferma: “tra l’altro a me non risulta che questa norma dell’avocazione nei ministeri ci sia. I capi dipartimento, che sono le figure apicali dei ministeri non mi sembra che abbiano questo tipo di incombenza”. L’osservazione è caduta nel vuoto, salvo che chi l’ha ripresa ha provato a contestarla con argomenti che a me non sono sembrati fondati.

Eppure lì c’era (ci sarebbe stata), c’è una chiave per interpretare a tutto tondo la vicenda posta dall’art. 101 del CCNL, almeno per quanto concerne la questione relativa alla “avocazione”/ “sostituzione”.

Perché quella osservazione è importante, anche se forse neppure chi l’ha formulata l’ha fatto con piena consapevolezza (o almeno questo ha mostrato nel corso della discussione)? Perché quel rilievo rimanda direttamente alla sentenza 23/2019 della Consulta, che è oggi l’imprescindibile cartina di tornasole attraverso cui leggere e comprendere il ruolo del segretario comunale.

C’è un oggettivo legame tra l’osservazione di Savarino e la sentenza n. 23 ed è questo: il segretario comunale è soggetto allo spoil system perché appartiene allo stesso genus di dirigenza, quella della quale sono parte appunto i “capi dipartimento” dei ministeri (ved. espressamente, sul punto, sentenza C. Cost. 103/2007 ma anche n. 233/2006 ed altre). L’accostamento proposto da Savarino coglie dunque nel segno per questa ragione.

Chi ha provato a ribattere all’argomento abbozzato da Pompeo (Monea) ha semplicemente travisato i fatti perché, a livello ministeriale, il dirigente “generale” non è altro che una figura di livello superiore di un’unica dirigenza di “line”.

In effetti, basta leggere gli artt. 16, 17 e 19 del D.lgs. 165/2001 per comprendere di cosa stiamo parlando ed a cosa poteva alludere Savarino.

L’art. 16 disciplina la dirigenza c.d. “generale” (rectius: titolare “di uffici dirigenziali generali”). Ad esempio, nel caso del nostro dicastero di riferimento - il Miniterno - sono i direttori centrali (questi sono i dirigenti di prima fascia, ex art. 23 D.lgs 165/2001). I dirigenti di seconda fascia trovano la loro disciplina funzionale nell’art. 17 dello stesso TUPI. Sia i dirigenti di prima che quelli di seconda fascia rappresentano la dirigenza di “line” (svolgente funzioni eminentemente “gestionali”), sottratta allo spoil system per consolidata giurisprudenza costituzionale.

Si tenga a mente che lo spoil system è un istituto discrimine, di carattere eccezionale nel nostro ordinamento, che notoriamente si fonda, per quanto riguarda l’organizzazione della PA, sui principi costituzionali sanciti dagli artt. 97 e 98. E’ chiaro che la soggezione a quell’istituto eccezionale non può non segnare uno spartiacque insuperabile tra il segretario e la dirigenza locale.

Nettamente distinti dai dirigenti di cui agli artt. 16 e 17 del TUPI, “i segretari generali, i capi dipartimento o altro dirigente comunque denominato, con funzione di coordinamento di uffici dirigenziali di livello generale” trovano la loro disciplina nell’art. 16, comma 5 (ved. anche art. 19, comma 3), del ridetto TUPI, ad essi si applica pacificamente lo spoil system, come da inveterata giurisprudenza costituzionale, risalente almeno alla già citata sentenza 233/2006. Non vi è dubbio che questo speciale contingente di dirigenti svolge funzioni di “staff”, ed in particolare compiti di “diretta collaborazione” con gli organi politici.

Se i segretari comunali sono soggetti allo spoil system, come riconosciuto con la sentenza n. 23/2019, essi non possono che essere assimilati al genus di cui al comma 5 dell’art. 16 e distinti dai “dirigenti”. Si tratta dell’applicazione dell’elementare principio che si apprende nei primissimi studi di giurisprudenza: “ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio”.

Il segretario comunale – come conferma (opinabilmente o meno non interessa) la citata sentenza 23/2019 – è una figura che opera “in diretta collaborazione” con l’organo politico. E’ vero che la sentenza n. 23/2019 menziona (meglio sarebbe dire: non esclude) tra le competenze del segretario anche quelle “gestionali” ma non sono evidentemente quelle su cui si fonda l’ammissibilità a suo carico dello spoil system e quindi non sono quelle che lo contraddistinguono e comunque non sono quelle prevalenti. Pur in un contesto argomentativo (quello della sentenza n. 23/2019) per nulla lineare e talora anche poco coerente, il segretario può essere sottoposto allo spoil system in forza di quanto previsto nel paragrafo 5.1 della parte motiva della sentenza e che ha il suo acme nel perentorio incipit del paragrafo 5.2: “Il segretario comunale è certamente figura apicale e altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o strutture amministrative.”.

Aveva quindi ragione evidente Savarino quando poneva in correlazione la figura del segretario con quella dei capi dipartimento e torto chi gli ha obiettato che il parallelismo andava fatto con la dirigenza “generale”. Ma se la correlazione individuata da Savarino ha fondamento, come in effetti l’ha, essa non può valere solo in malam partem (ossia quando si tratta di applicare lo spoil system). Essa deve valere sempre.

E qui, per procedere oltre nel discorso, occorre avere a mente un altro punto che, sia pure non ben sviluppato, è emerso nella discussione di lunedì sera.

L’art. 101 del CCNL del 17.12.2020 ha (avrebbe) un antecedente normativo nell’articolo 2, comma 9 bis, della L. 241/90. Anzi, per alcuni - essendo nulla (o almeno fortemente viziata) la previsione recata dalla disposizione della contrattazione collettiva (come già visto, per violazione dell’art. 40 del D.lgs. 165/2001) – la vera norma da applicare sarebbe quella del testé citato art. 2.

E’ veramente così? Cosa dice questa disposizione? Eccone il testo: “L'organo di governo individua, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso di inerzia. Nell'ipotesi di omessa individuazione il potere sostitutivo si considera attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto all'ufficio o in mancanza al funzionario di più elevato livello presente nell'amministrazione.”.

Mettiamo a fuoco il primo periodo per sottolineare un importante ed imprescindibile dato grammaticale: le figure apicali sono declinate al plurale mentre l’amministrazione è declinata al singolare. Non è un caso. E’ evidente come il legislatore, declinando al singolare l’amministrazione, non si riferisce all’unica “figura apicale” mitologicamente immaginata da ANCI/UNSCP/legge Madia ma ad una pluralità di “figure apicali” normalmente presenti in ciascuna amministrazione. Capisco che, condizionati come siamo da anni di propaganda puntata sulla “figura apicale” (rigorosamente al singolare) poco si è prestata attenzione su quel plurale (“figure apicali”), ma il punto nevralgico sta proprio lì.

Cosa immagina un legislatore che – ricordiamolo sempre – ha come immediato prototipo le amministrazioni centrali? Suppone che possa essere un capo dipartimento a farsi carico delle inerzie dei sottoposti? Ce lo vedete il Capo della Polizia (Capo dipartimento della Pubblica sicurezza) che ogni giorno tiene la conta degli eventuali inadempimenti dei tredici direttori centrali suoi sottoposti? Ma nemmeno per sogno! Soltanto dei folli possono immaginarlo. Il Capo della Polizia ha ben altro cui pensare. E su questo ha posto giustamente l’accento Pompeo Savarino. Evidentemente solo dalle parti di UNSCP alligna l’idea che l’autorevolezza di una figura professionale si costruisce gravandola di esagerati oneri impropri.

Non esiste che un segretario generale, un capo dipartimento o figure analoghe si perdano in simili quisquilie. Quando la norma (sempre il citato comma 9bis) parla allora di “figure apicali” si riferisce ai dirigenti addetti ad uno dei settori che si occupano della gestione; sostanzialmente a quelli che operano “in line”, fino alla soglia, invalicabile, del dirigente “generale”, evocato, nella logica del comma 9bis solo come limite insuperabile. Oltre (più in alto) non si va, come prescrive esplicitamente la citata norma di legge (più in alto, come dirò in conclusione, c’è l’art. 14 del TUPI).

Per altro, il comma 9bis dell’art. 2 della L. 241/90 non è che l’esplicitazione se non, a sua volta, la conferma (in questo caso però in termini di previsione stringente ed allargata alle amministrazioni non centrali) della disposizione già contenuta nella lettera e), comma 1, dell’art. 16 del TUPI. Ossia l’ipotesi surrogatoria per il caso di inerzia è prevista ed ha ragion d’essere solo nei riguardi la dirigenza “in line”, quella titolare delle funzioni “gestionali”. Questa potestà surrogatoria è naturalmente esercitabile sia riguardi degli uffici ad essa sottoposti (quelli di livello sub dirigenziale per la dirigenza di seconda fascia) che nei rapporti interni tra dirigenti generali e dirigenti (citata lettera e) del comma 1 dell’art. 16).

E cosa sorregge e rende razionale un sistema siffatto? Ma quella “comunanza di competenza” cui ha fatto lucidamente riferimento Vito nella prima parte del suo intervento e che caratterizza i rapporti di natura “gerarchica”. I rapporti tra dirigenti generali e dirigenti di seconda fascia delle amministrazioni centrali sono improntati a questo tipo di relazione, come confermano, in particolare, le lettere b), c), d), e), i) dell’art. 16 del TUPI e la lettera c) del successivo art. 17.

In sede locale non esiste, come noto, la distinzione in fasce della dirigenza ma esiste solo una “naturale” situazione di gerarchia tra il dirigente e gli uffici del suo settore. Ebbene è in questo ambito che ha modo di esplicarsi la previsione dettata da questo famoso comma 9bis. Oltre si entra in territorio ignoto. Non esiste tra segretari comunali e dirigenti locali un rapporto di gerarchia, unica relazione organizzativa su cui si può fondare la sostituzione e soprattutto l’avocazione. Non esiste questa relazione gerarchica per quanto è chiaramente scritto negli artt. 97 e 107 del TUEL. Anzi, soprattutto per quanto non c’è scritto (ubi lex noluit non dixit) in relazione alle ben diverse e precise previsioni contenute negli artt. 16 e 17 del TUPI, testé richiamate.

Questi i dati testuali. Ma è l’analisi sistematica che aggiunge argomenti alla riflessione.

Si è già visto come la relazione di gerarchia (nel cui alveo si devono iscrivere i rapporti surrogatori ed il potere di avocazione) importi una “comunanza di competenze”. Si tratta più che del frutto astrazioni dottrinarie particolarmente sofisticate di un dato di empirica razionalità. Va da sé (è ragionevole) che l’ingegnere preposto alla dirigenza dell’ufficio lavori pubblici possa esercitare poteri surrogatori e/o poteri di avocazione nei riguardi del geometra che gli è sottoposto. Così analogamente nessuno dubita che il laureato in economia e commercio, preposto alla dirigenza dell’ufficio tributi, potrà esplicare gli stessi poteri nei riguardi del ragioniere assegnato al suo settore e responsabile di specifici procedimenti. Appare priva di sufficiente razionalità, invece, l’ipotesi dell’ingegnere capo che si ingerisca nel settore tributi o che si occupi dei servizi sociali; mancherebbe la ridetta “comunanza di competenze”, che non ha solo un formale fondamento giuridico ma anche un oggettivo fondamento tecnico-professionale, sussumibile nel noto principio epistemologico: “no overlapping magisteria”.

Il segretario comunale è invece la solita figura sui generis che non può essere assimilata agli “apicali” di cui parla il comma 9 bis. Se dobbiamo proprio trovare una parentela o una assimilazione per status e funzioni egli somiglia di più al ridetto “capo di gabinetto” che al dirigente di uno dei qualsiasi settori in cui si articola l’organizzazione comunale. Ed è così non perché lo sostengo io ma perché c’è alla base di tutto sempre la sentenza n. 23/2019, la quale certamente rappresenta, per molti aspetti, un spericolato esercizio di concordia discordantium canonum ma che ha un suo fondamento ineludibile nel riconoscimento (pur controverso) del fatto che “Il segretario comunale è certamente figura apicale e altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o strutture amministrative.” E che, in ogni caso, egli si distingue dai “titolari di incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di funzioni tecniche di attuazione dell'indirizzo politico”. Nel primo capo del punto 5.1 la sentenza 23/2019 elenca i precedenti nei quali la Consulta ha “affermato l'incompatibilità con l'art. 97 Cost. di disposizioni di legge, statali o regionali, che prevedono meccanismi di revocabilità ad nutum o di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle vicende del rapporto instaurato con il titolare, non correlati a valutazioni concernenti i risultati conseguiti da quest'ultimo nel quadro di adeguate garanzie procedimentali”. Ebbene lì, in quelle sentenze, ci sono casi assimilabili alle “figure apicali” di cui parla l’art. 2, comma 9bis, della L. 241/90 ma non il segretario comunale, il cui regime di decadenza automatica viene proprio per questo dichiarato costituzionalmente legittimo. Tertium non datur, dunque. Se ai fini dello spoil system il segretario si distingue dagli apicali esercenti “funzioni tecniche” (id est: operative o gestionali) non si capisce perché dovrebbe esserlo ai fini dell’esercizio delle funzioni di cui al pluricitato comma 9bis. A meno di non postulare un ordinamento totalmente strabico e quindi grossolanamente irrazionale.

Ma anche a voler contestare o sminuire l’importanza della decisione della Consulta, rimane il fatto che il segretario è ontologicamente diverso, per modalità di selezione, per status, per progressioni di carriera, per disciplina normativa e per funzioni, dalla dirigenza locale e questo anche a dispetto dell’ultimo CCNL che ha attratto la nostra figura nell’ambito delle funzioni locali.

Conferme al ragionamento che sto svolgendo vengono oltre che dai più immediati dati normativi di diritto positivo anche dai principi generali.

Immanente all’intero sistema della rule of law, in cui siamo immersi, c’è il principio che nessuno organo o ufficio possa assumere competenze totalizzanti ed omnicomprensive.

E’ una mia ubbia? No è precisamente scritto nel comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, il quale stabilisce che: “Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza”. La norma costituzionale avrebbe potuto più sinteticamente prevedere: “Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le….. competenze….”, omettendo il lemma “sfere”. Ecco, lì c’è codificato il principio che nessun ufficio possa avere occuparsi di “tutto” ma che debba avere “sfere” di competenza necessariamente circoscritte in relazione a specifiche capacità tecnico-professionali.

Insomma, ripugna allo stato di diritto la presenza di uffici dalle attribuzioni smisurate ed indefinite. E non credo che la ragionevolezza di questo canone sia contestabile. Prova empirica ne sia che le nostre organizzazioni amministrative sono vieppiù ramificate e complesse.

Anche per questo i titolari degli uffici indicati nel comma 5 dell’art. 16 del D.lgs. n. 165/2001 non sono attinti dalla previsione dell’art. 2 comma 9bis della L. 241/1990.

Le loro competenze generali e trasversali (tipiche degli uffici di staff) amplierebbero a dismisura ed in maniera insostenibile il loro raggio d’azione.

E’ la stessa ragione (motivo di ragionevolezza) che porta ad escludere che quella norma possa applicarsi ai segretari comunali.

Questi non solo appartengono per sorte alla ristrettissima cerchia di dirigenti pubblici soggetti a “decadenza automatica” (id est: spoil system) ma, per sovrappiù, svolgono il loro incarico presso enti “a competenza generale” ed “a fini generali”, ossia il cui raggio d’azione non conosce sostanzialmente vincoli alla sua concreta esplicazione.

Pretendere che il segretario comunale (o provinciale) assuma un generale potere di avocazione/sostituzione – come richiede la lettura mainstream dell’art. 2, comma 9bis, della L. 241/90 ed, in maniera ancor più esasperata l’art. 101 del CCNL della dirigenza - non è illegittimo ma semplicemente surreale.

All’origine dell’evo moderno risuonò il monito di Alberico Gentili: "Silete theologi in munere alieno". Esso costituisce oggi uno degli architravi della nostra civiltà: nessun sapere, nessun ceto professionale può arrogarsi il diritto di invadere il campo di altri saperi, di altre conoscenze, di altre professioni.

Ecco, anche presso le nostre amministrazioni, fondate sul modello “weberiano” della specializzazione professionale, resta indiscutibilmente valido l’ammonimento gentiliano: “silete in munere alieno”.

Lo stato di diritto, che è uno dei prodotti tipici della moderna razionalità, è fondato sul noto meccanismo del check and balance, che non riguarda solo l’organizzazione politica e costituzionale, come comunemente si ritiene, ma permea così profondamente l’ordinamento da contraddistinguere e caratterizzare anche tutti gli assetti amministrativi.

Anche qui giova allargare un poco lo sguardo per cercare di avere una visione più ampia che non quella minima derivante dalla sola messa a fuoco della specifica questione di cui mi sto occupando.

Proviamo a considerare cosa ci dice la Corte Costituzionale in materia di concorsi, che – come noto - è lo strumento per la “selezione dei soggetti più capaci” da inserire nei ranghi della P.A.. Per esempio: nella sentenza n. 416/1993 la Consulta ebbe dichiarare l’illegittimità costituzionale di una legge regionale “nella parte in cui non ha previsto la presenza, in seno alle commissioni giudicatrici per l'avanzamento a dirigente di seconda qualifica, di membri esperti dotati di specifica competenza tecnica rispetto alle materie previste per le selezioni concorsuali”. Nel celebre leading case, costituito dalla sentenza n. 453/1990 la Corte affermò il principio per cui (allora, almeno la maggioranza dei) i membri delle commissioni dovesse “essere formata da esperti dotati di specifiche competenze tecniche rispetto alle prove previste dal concorso”. Principio poi sempre riaffermato ed ulteriormente precisato: ved., per esempio, la sentenza 333/1993, dove è ribadito: “è necessario che gli esperti chiamati a far parte della commissione giudicatrice siano competenti rispetto alle materie oggetto delle prove concorsuali”. E’ evidente come non basti per la Consulta la generica presenza di esperti ma questi devono essere specializzati proprio riguardo le “materie previste per le selezioni concorsuali”.

Non avrebbe senso questa particolare sensibilità del giudice delle leggi per la competenza e specifica specializzazione che deve essere posseduta dai selezionatori se poi tutto il sistema pubblico a valle non fosse coerente con queste sue rigorose premesse.

Ossia questa attenzione per la “specializzazione” non può riguardare solo la fase della selezione dei funzionari e non rilevare nella ben più importante e decisiva fase dell’esercizio delle funzioni pubbliche.

Sotto ulteriore aspetto, perché richiedere titoli di studio puntualmente differenziati per l’accesso al pubblico impiego e perché prestare ossessiva attenzione alle sottili regole di equipollenza se poi una norma prevedesse che, in ultima istanza, l’uno vale l’altro o addirittura, come si sostiene nell’applicazione distorta dell’art. 2, comma 9bis, che uno prevalga su tutti gli altri?

Ora non avrebbe senso, anzi sarebbe surrealmente contraddittorio, se questa attenzione alla specializzazione professionale fosse richiesta al primo livello di operatività dell’amministrazione e si perdesse nei suoi livelli più avanzati.

Per questo vanno guardate con estrema cautela le disposizioni, come l’articolo 101 del CCNL ma lo stesso comma 9bis dell’art. 2 della L. 241/90, se attraverso essi si rischia di introdurre, nella sostanza, un principio di “fungibilità” tra le diverse figure professionali e di sovrapponibilità dei diversi magisteri.

Per altro verso, se trasferiamo lo sguardo dalle questioni di cui si è occupata la Corte Costituzionale ai vertici dell’ordinamento alla più prosaica quotidianità, ci rendiamo conto leggendo, sempre a mo’ di esempio, le celebri LLGG n. 3 di ANAC (quelle dedicate ad una delle figure nevralgiche dell’attività amministrativa: il RUP) come per svolgere tale incarico sia richiesto il possesso di titoli di studio specifici e, più in generale, “di specifica formazione professionale, soggetta a costante aggiornamento, e deve aver maturato un’adeguata esperienza professionale nello svolgimento di attività analoghe a quelle da realizzare in termini di natura, complessità e/o importo dell’intervento”.

Lo stesso d.lgs. 165/2001, magna charta del pubblico impiego, è costellato, come non potrebbe essere altrimenti, di continui accenti posti sulla “professionalità”, sulla “particolare professionalità”, sulla “specifica professionalità”, sulla “peculiare professionalità”. Nell’ordinamento degli Enti locali, l’art. 89 stabilisce il principio (troppo spesso dimenticato e disatteso) che “l'ordinamento generale degli uffici e dei servizi” deve informarsi ai “principi di professionalità e responsabilità”. Si tratta di regola di pura ragionevolezza per cui un ragioniere non può surrogare un geometra allo stesso modo di come un dermatologo non può improvvisarsi cardiochirurgo o un barbiere non può più esercitare il mestiere di cavadenti.

Il principio di specializzazione professionale è dunque immanente al nostro sistema e non può essere sovvertito da colpi di mano o interpretazioni eversive. Del resto, se l’Amministrazione pubblica deve perseguire il “buon andamento” questo non potrà avvenire se non mettendo a frutto le diverse professionalità, senza improprie invasioni di campo né confusione di ruoli.

Per questo vale ribadire che la sostituzione e l’avocazione hanno come presupposto imprescindibile la “comunanza di competenze”, intesa non soltanto in senso strettamente giuridico (come “sfera di competenza” comune definita dalle norme) ma anche come comunanza di competenze tecnico-professionali, per cui alla valutazione tecnica formulata da un professionista può opporsi/sovrapporsi/sostituirsi solo la valutazione tecnica di un professionista di omologa estrazione/formazione e di rango professionale almeno pari al primo. Se così non fosse ci sarebbe quell’interferenza “in munere alieno” che certamente non può produrre il “buon andamento”.

Se queste sono le premesse del ragionamento, la conclusione che ne deriva è che il comma 9bis dell’art. 2 della L. 241/90 non soltanto si applica alla sola dirigenza di “linea” (come dal prototipo normativo costituito dalla lettera e) dell’art. 16 del TUPI) ma solo in senso verticale (cioè all’interno di ogni settore), dove sussiste la richiamata “comunanza di competenze” (e giuridica e professionale) e non in senso trasversale (tra i diversi settori dell’amministrazione). La massima estensione consentita potrebbe essere, a certe condizioni, tra settori omogenei, ossia a presidio dei quali siano posti dirigenti di formazione e cultura “equipollenti” (es. l’architetto del settore ambiente può ragionevolmente interagire con il settore urbanistico-edilizio o anche con quello dei lavori pubblici ma non può certamente occuparsi di tributi, di contabilità o di servizi socio-sanitari). Ovviamente in ogni distinzione c’è sempre un margine di opinabilità ed ineliminabili zone grigie di confine ma la presenza di queste controverse situazioni liminari non può offuscare il principio generale.

Alla luce di questa ricostruzione il segretario comunale, per la sua peculiare collocazione istituzionale, come definita dalla sentenza della Consulta n. 23/2019, non può mai ricapitolare in sé, sia pure in via eventuale, tutte le competenze relative alle disparate funzioni di cui sono titolari i comuni. Ma se anche non ci fosse stata la pur decisiva decisione della Corte a marcare un imprescindibile discrimine, resterebbe anche il limite della formazione, eminentemente giuridico-manageriale, che lo connota e che gli impedisce ragionevolmente di assurgere al ruolo innaturale di peritus peritorum se non addirittura di peritus in omnia.

Non può assumere le funzioni di general decider of last resort perché ciò contrasta con i principi su cui riposa il nostro ordinamento, saldamente ancorato al modello della rule of law.

Immagino le obiezioni opponibili a questo ragionamento. Sì, è vero che il segretario è titolare di funzioni gestionali (come, sia pur in maniera non chiara e lineare, ammette la Consulta) ma esse non rappresentano il carattere distintivo e realmente qualificativo del suo status, perché se così fosse egli non sarebbe potuto essere assoggettato al regime di spoil system, come invece ha fatto la Consulta. Questo argomento si ricava chiaramente dal già citato primo capo del paragrafo 5.1 della motivazione della sentenza n. 23/2019, dove la Corte Costituzionale richiama i precedenti in cui ha censurato l’istituto dello spoil system, dal che discende che il segretario non appartiene alla dirigenza operativa o di “line” (o, come si esprime la Corte costituzionale, egli non assume “incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di funzioni tecniche di attuazione dell'indirizzo politico” o non li assume in maniera preminente). Da questo assunto non si può prescindere perché altrimenti crolla il già molto instabile “punto di equilibrio” che la Corte ha faticosamente individuato per comporre “esigenze non facilmente conciliabili”, giustificando lo spoil system cui è soggetto il segretario comunale.

E’ vero che la lettera d) del comma 4 dell’art. 97 del TUEL prevede che il segretario “esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia” ma questa “norma in bianco” non soltanto prefigura una ipotesi residuale ma presenta soprattutto carattere puntuale e per questo si differenzia nettamente sia dalla disposizione di cui all’art. 101 del CCNL del 17.12.2020, sia dall’art. 2, comma 9bis, della L. 241/90, entrambi caratterizzati da un connotato di obbligatoria generalità.

Insomma la lettera d) del comma 4 dell’art. 97 del TUEL non sposta i termini della questione come sin qui rappresentati, restando caratterizzata la figura del segretario da altri elementi più specifici, come conferma sempre la sentenza della Corte Costituzionale n. 23 già più volte menzionata.

In ultimo vale svolgere un’altra considerazione di carattere generale. In questo periodo in cui si discute in modo acceso delle politiche di rilancio necessarie a superare il disastro economico che ha accompagnato la pandemia, uno dei temi centrali è la riforma della P.A. (tema sempiterno). Ebbene nel corso del dibattito sta emergendo una nuova sensibilità rispetto al passato. Da più parti si chiede una significativa revisione delle dotazioni organiche, che sin qui hanno privilegiato (specie nei ruoli di vertice) la presenza di laureati in materie giuridiche (giurisprudenza e scienze politiche, che poi sono i titoli di studio che caratterizzano i segretari comunali), dando maggior spazio a figure di spiccata formazione tecnica. Si invocano così più ingegneri, più architetti, più informatici, più fisici, più chimici ma anche più economisti, e più sociologi…. Ovviamente non può trattarsi solo di una banale questione di riequilibrio quantitativo se poi, nel momento decisivo, l’ultima parola e lo scioglimento di ogni nodo gordiano, anche quando si tratta di questioni eminentemente tecniche, dovrebbe spettare al solito laureato in giurisprudenza o scienze politiche. Anche in questo caso dovrebbe prevalere la competenza unita alla ragionevolezza.

Si obietterà, infine, a queste mie considerazioni: “sì, ma allora come si supera l’impasse e l’inerzia? Ci arrendiamo?” Ma assolutamente no. Solo che bisogna utilizzare gli strumenti appropriati.

Bisogna anzitutto ammettere che il rischio di impasse ed inerzie è, sotto certi profili ed entro certi limiti, una eventualità “fisiologica” dei nostri ordinamenti democratici e dello stato di diritto, il quale essendo fondato sulla rule of law, deve postulare che residuino sempre e comunque momenti o situazioni di stallo, in quanto esso rinuncia per principio alla pretesa (rischio) del decisionismo totalitario e pervasivo. Ma neppure questo può essere un alibi per l’inazione.

Dal punto di vista concreto non è necessario fare violenza ai principi di competenza, di specializzazione e di professionalità. Esistono istituti già disciplinati dall’ordinamento.

L’art. 14, comma 3, del TUPI è la vera e principale risposta. Ho provato a spiegare sopra che, secondo la corretta lettura dell’art. 2 comma 9 bis della L. 241/90 (collegato all’art. 16 del TUPI. TUPI che che resta sempre l’ordito fondamentale dell’impiego pubblico italiano), la surrogazione/sostituzione non può “splafonare” rispetto alla dirigenza di linea. Quando l’inerzia si registra al massimo livello della dirigenza di “linea” soccorre proprio l’art. 14, comma 3, il quale prevede che “In caso di inerzia o ritardo” l’organo di governo “può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti. Qualora l'inerzia permanga, o in caso di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, che determinino pregiudizio per l'interesse pubblico” l’organo di governo “può nominare, salvi i casi di urgenza previa contestazione, un commissario ad acta”. Ecco la vera norma di chiusura, che non oltraggia i principi di competenza, professionalità e specializzazione che sono immanenti al nostro ordinamento.

Per concludere il discorso aperto con l’intuizione iniziale di Pompeo Savarino da cui ero partito, è confermato (semmai fosse dubbio) che il commissariamento esclude che possa entrare in campo il “capo dipartimento”. Ma se non entra in gioco il capo dipartimento è escluso che entri il suo “omologo” locale: il segretario comunale. Aveva visto bene lui nel corso del webinar.

Per dare sostanza a questo potere commissariale in sede locale, dove spesso le dotazioni organiche non consentono sostituzioni, il corredo di strumenti che la normativa mette a disposizione è comunque sufficiente ad affrontare ogni evenienza, dagli scavalchi, alle supplenze o comandi temporanei, agli incarichi straordinari a dirigenti di altre amministrazioni pubbliche, alle convenzioni ed accordi tra amministrazioni diverse, il ventaglio di soluzioni rispettose dei principi è vasto ed efficace. Non è escluso, che nelle materie in cui attinenti alla sua preparazione professionale, possa essere il segretario l’incaricato della surrogazione, passandosi però per la porta stretta dell’art. 97, comma 4, lettera d), del TUEL e quindi attraverso un provvedimento puntuale ed anche adeguatamente motivato che gli conferisca l’incarico commissariale in relazione alle materie di cui è riconosciuto effettivamente competente dal punto di vista professionale. L’importante è che il medico di medicina generale non si improvvisi cardiochirurgo.

SINTESI FINALE: La conclusione di merito è dunque tracciata: l’art. 101, nella parte in cui pretende di attribuire al segretario “il potere di avocazione degli atti dei dirigenti in caso di inadempimento” viola irreparabilmente il limite che la legge fissa alla contrattazione collettiva come definito dall’art. 40, comma 1, del D.lgs. n. 165/2001; in via principale perché si ingerisce indebitamente nella materia dell’organizzazione degli uffici, ed inoltre perché pretende, altrettanto indebitamente, di intervenire sulle “prerogative dirigenziali”. Il suo destino è quindi già segnato dalla legge e precisamente dall’art. 2, comma 3bis. Pertanto, soccorrendo gli artt. 1339 e 1419 del c.c., la materia relativa alla sostituzione dei dirigenti inerti resta disciplinata dall’art. 14, comma 3, dello stesso D.gs. n. 165/2001.

Inammissibile poi appare l’applicazione dell’art. 2 comma 9bis della L. 241/90 ai segretari comunali: 1) perché essi non sono parte della dirigenza di linea e non hanno con questa relazione di superiorità gerarchica e conseguentemente la necessaria “comunanza di competenze”; 2) perché l’applicazione ad uffici di staff (con competenze quindi trasversali) di un generalizzato potere surrogatorio su tutti i settori di attività di enti a fini generali quali sono i comuni, comporterebbe un insostenibile sovraccarico di funzioni che svilirebbe il principio della adeguata capacità professionale; 3) perché il segretario non appartiene alla dirigenza operativa ma a quella chiamata a collaborare direttamente con gli organi politici, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale e quindi si pone oggettivamente oltre il raggio d’azione previsto testualmente dal comma 9bis dell’art. 2 della L. 241/90”.

«Non ci sono fatti, solo interpretazioni» Friedrich Nietzsche.